CO-EX Centro Studi e Ricerca

LA GUERRA IN CROAZIA NEL 1991

T-55 distrutto nei combattimenti

 

La guerra per la secessione della Croazia dalla Jugoslavia iniziò nel giugno del 1991. Fu una guerra breve ma molto cruenta, come solo le guerre civili lo sono. La popolazione civile fu coinvolta nei combattimenti e ne subì i danni e le atrocità maggiori.

Questa guerra fu l’epilogo di oltre un decennio si stasi politica, che aveva paralizzato gli organi federali jugoslavi, dalla morte del Maresciallo Tito avvenuta nel 1980. Da questo momento in poi, i nazionalismi delle varie etnie iniziarono a riemergere e causarono la disgregazione dello stato multietnico, tenuto insieme dall’ideologia comunista portata avanti con forza dal Maresciallo.

Questa guerra, come quella molto più sanguinosa ed atroce che avvenne in Bosnia-Erzegovina l’anno successivo, dimostrò come le ferite e gli antagonismi che erano esplosi tra le etnie degli slavi del sud (jugoslavi) durante la seconda guerra mondiale, non erano scomparsi ma covavano sotto la cenere, pronti a riemergere drammaticamente. I nazionalisti contrapposti dei croati (Ustascia) e dei serbi (Cetnici) ebbero un ruolo di primo piano in questa guerra, come lo ebbero durante la seconda guerra mondiale.

Miliziani croati armati di Zastava M76 con ottica Zrak

 

L’inizio delle ostilità.

La guerra in Croazia iniziò il 29 giugno 1991. Ancora era fresca la sconfitta dell’esercito nazione jugoslavo in Slovenia, che in pochi giorni di combattimenti si era proclamata indipendente. La “fortuna” degli sloveni fu il fatto che la Slovenia di fatto era una repubblica jugoslava etnicamente omogenea (ben oltre il 90% della popolazione era slovena). Questo aspetto fu decisivo nel far si che l’esercito federale jugoslavo decise di combattere a ranghi ridotti (quasi tutti i reparti rimasero nelle caserme stanziate in Slovenia) e per pochi giorni. Era già nell’aria, da parecchi anni, il fatto che la Jugoslavia potesse disgregarsi e nessuna altra nazionalità voleva morire in una guerra fratricida che di fatto non li riguardava.

Ben diversa era la situazione in Croazia. Molte aree della repubblica croata erano abitate da una numerosa popolazione serba: la Krajina, la Slavonia orientale e occidentale, la zona di Dubrovnik e la Banjia per citare le maggiori. In queste aree, già durante la seconda guerra mondiale si erano verificati scontri interetnici che erano ancora vivi nei ricordi delle persone più anziane.

Nelle settimane precedenti la dichiarazione di indipendenza croata, i nazionalisti serbi avevano iniziato ad armarsi, decisi, in caso di secessione croata, a formare regioni autonome sotto il controllo della Serbia. L’esercito jugoslavo che doveva essere neutrale e garante dell’unità nazionale, iniziò nascostamente ad armare le truppe paramilitari serbe, in previsione dei futuri ed inevitabili scontri.

 

I primi scontri armati iniziarono, come detto precedentemente, il 29 giugno nel villaggio di Tenja, e si ampliarono alle città di Osijek e Vinkovci nella Slavonia orientale. Fin dall’inizio la guerra assunse la forma di una guerra civile brutale e spietata. L’obiettivo era quello di operare una vera e propria pulizia etnica per avere il controllo di un territorio “etnicamente pulito”. Quelli che un tempo erano i normalissimi vicini di casa, ma di etnie diverse, erano ormai visti come nemici da eliminare o espellere. I fantasmi dei crimini compiuti, durante la seconda guerra mondiale, da Ustascia e Cetnici avevano ripreso a volteggiare tra le case dei villaggi e delle città.

Nelle aree di maggiore concentrazione di popolazione serba, come Knin, Kordun e Lika, le forze paramilitari serbe ebbero velocemente la meglio, mentre nelle zone a popolazione mista iniziarono violenti combattimenti.

E da notare che la guerra in Croazia, fin dall’inizio fu caratterizzata dall’ampio impiego di forze paramilitari, che poco addestrate, poco disciplinate e con un codice etico di comportamento molto basso rispetto ad un esercito regolare, furono responsabili di atrocità, pulizia etnica e violenze che insanguinarono il paese dall’inizio dei combattimenti fino alla fine degli stessi. E furono la causa di rancori tra croati e serbi che ancora oggi non si sono completamente sopiti.

Cetnici Serbi armati di AK M70 di produzione Jugoslava

 

Dai primi di luglio la guerriglia si ampliò a macchia d’olio in tutte le aree abitate dai serbi. L’esercito federale iniziò a muoversi per “frapporsi” ai contendenti, ma nella maggior parte dei casi si mosse per aiutare i rivoltosi serbi. In questa fase della guerra la Croazia non disponeva di un esercito regolare vero e proprio, ma contava su una polizia ben addestrata e armata, prevalentemente, con armi leggere. Anche i gruppi paramilitari – sempre più numerosi – erano poco addestrati e con armi leggere. Di contro l’esercito federale, se pur aiutava nascostamente i serbi, non interveniva con tutta la sua forza per non far schierare l’opinione pubblica verso i secessionisti croati. La guerra proseguiva a bassa intensità di scontri militari ma era già evidente che la popolazione civile are il vero obiettivo dei gruppi paramilitari.

Nelle successive settimane iniziarono ad affluire volontari dall’estero per schierarsi sia con i croati sia con i serbi. Anche molti occidentali si offrirono volontari tra le schiere paramilitari croate (tanti anche gli italiani). In taluni casi per mere affinità politiche di un passato che non voleva venir meno.

 

Volontari stranieri nelle formazioni paramilitari croate

 

La guerra assunse forme particolarmente violente nella Slavonia orientale, dove il terreno piatto della regione e la ramificata rete stradale permisero un uso massiccio di unità corazzate e di artiglieria pesante, trasformando così la zona nel maggior teatro dei combattimenti. I croati, a questo punto delle ostilità, iniziarono a circondare le caserme dell’esercito federale in territorio croato e a tagliare l’energia elettrica e l’acqua. Furono bloccate le strade d’accesso per non permettere i rifornimenti di viveri. La maggior parte dei 30.000 uomini delle forze di polizia furono adibiti a queste operazioni. L’esercito federale jugoslavo si trovò alle strette. O intervenire pesantemente negli scontri o patteggiare una ritirata non cruenta dal territorio croato. La decisione presa, dopo vari giorni di assedio, fu per la ritirata. Questa decisione fu decisa sia per ragioni politiche che interne all’esercito stesso: composto da varie etnie, i comandanti temevano numerose defezioni da parte dei soldati dei vari gruppi etnici, che non sentivano per nulla il dovere di difendere l’unità di un paese che di fatto non esisteva se non nelle carte geografiche.

Fu così concordato il ritiro, dell’esercito federale, dalle caserme tra l’alto comando e le autorità croate. Furono rari gli incidenti. L’accordo era che i soldati abbandonassero gli armamenti pesanti (potevano prendere solo l’armamento personale) e gli equipaggiamenti, mentre venivano scortati dalla polizia croata al di fuori del territorio croato. Così molte armi pesanti e mezzi corazzati dell’esercito federale caddero in mano ai croati che ne avevano un disperato bisogno. Da questo momento l’indipendenza del paese era di fatto salva. Rimaneva da decidere sulla sua integrità territoriale, cioè se le zone abitate dalla popolazione serba si fossero rese indipendenti oppure la Croazia fosse rimasta unita. La decisone ultima spettava alle armi.

Evacuazione di civili da un villaggio in Slavonia

 

La guerra si intensificò molto dopo il 20 agosto 1991. A seguito del tentativo di golpe operato a Mosca da un gruppo di ufficiali dell’esercito ai danni di Gorbaciov. Questo tentativo, poi fallito, era stato visto a Belgrado e tra i serbi di Croazia come un possibile aiuto militare e soprattutto politico, visto che fino a quel momento la dirigenza sovietica non mostrava un sostegno deciso per la causa degli alleati serbi.

I duri combattimenti nella città di Vukovar

 

Il 24 agosto si assistette al primo grande attacco, con mezzi corrazzati e artiglieria pesante alla città di Vukovar. Per la prima volta l’esercito jugoslavo era entrato nel conflitto. La città, quasi completamente accerchia, riuscì a resistere all’assedio e al pesante bombardamento, grazie ai molti croati che affluirono in città dalle zone limitrofe, ben presto seguite da volontari anche stranieri. La città resistette all’assedio per quasi tre mesi fino al 18 novembre, quando gli ultimi difensori si arresero alle soverchianti truppe serbe. L’impiego dei reparti corazzati dell’esercito jugoslavo fu molto criticato in Europa occidentale e negli USA. Da questo momento in avanti per l’opinione pubblica mondiale c’erano i difensori (i croati) e gli aggressori (i serbi). Vukovar divenne così una importante vittoria militare serba ma una pesante sconfitta diplomatica. Gli europei si decisero a riconoscere, definitivamente, le frontiere della ex-repubblica croata di Jugoslavia come i confini internazionali riconosciuti. Dopo la battaglia di Vukovar la questione che rimaneva da decidere era il destino dei serbi presenti sul territorio croato. I croati, a parole, continuavano ad assicurare la piena autonomia dei serbi e che i loro diritti non sarebbero stati toccati. I serbi, memori anche di quello che era successo durante la dittatura di Ante Pavelic, non si fidavano ed erano decisi a difendersi a tutti i costi nelle loro aree.

Un posto di blocco di miliziani serbi. Da notare il Thompson M1A1 imbracciato da uno di loro

 

Dall’autunno 1991, la guerra era prevalentemente portata avanti da truppe irregolari, vere e proprie bande armate e cecchini. Ambo le parti si macchiarono di atrocità e crimini contro i civili. Mentre la diplomazia internazionale iniziava a muoversi con maggior impegno per raggiungere un cessate il fuoco. Cosa non semplice visto che i contendenti non volevano in nessun modo cedere le loro richieste: integrità territoriale per i croati, piena autonomia o annessione alla Serbia per le zone a maggioranza serba.

Un cecchino serbo con fucile di precisione Zastava M76

 

La guerra crebbe molto di intensità ad ottobre e novembre, non mancarono gli attacchi aerei, condotti dagli aerei federali, e pesanti bombardamenti come quello che colpì la storica città di Dubrovnik. Tutti volevano conquistare quanto più terreno possibile per avere più carte da giocare in sede diplomatica. Ma ormai era chiaro che la Jugoslavia non esisteva più ed era questione di tempo che anche le altre repubbliche a cominciare da quella di Bosnia-Erzegovina si sarebbero rese indipendenti.

I serbi al principio dell’inverno 1991, cercarono di ripetere la tattica che aveva permesso la presa di Vukovar con altre città della Slavonia, Osijek e Vinkovci in particolare. Ma il protrarsi della guerra stava indebolendo enormemente la fragile economia serba. L’inflazione era fuori controllo e le spese militari troppo onerose. Anche la renitenza alla leva stava diventando un serio problema. Bisognava porre termine alle ostilità. Fu accetta da entrambe le parti la presenza dei caschi blu per dividere i contendenti. Faticosamente si era arrivati ad un cessate il fuoco che nella maggior parte dei casi reggeva.

La Croazia era ormai uno stato riconosciuto a livello internazionale. Il territorio che ancora rimaneva in mano ai serbi sarebbe stato riconquistato tutto nel 1995 con l’operazione militare Tempesta, che nel giro di pochi giorni, in agosto, permise all’esercito croato di riprendere il controllo completo della Krajina e di altre zone. La Croazia era completamente sotto il controllo dei croati.

Militare jugoslavo con AK M70 con lancia granate

 

Le perdite tra i croati ammontarono a circa 20.000 morti tra civili e militari. Le perdite serbe a oltre 8.000. Furono oltre 500.000 i serbi che abbandonarono le loro case in Croazia.

 

Copyright©2019 - David Elber per CoEx