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Gli anni 70 e la fine della Guerra Fredda

La minaccia nucleare 

Gli anni settanta si aprono con l’incubo del terrorismo in tutta Europa, l’antagonismo tra i due blocchi, la gara tra gli Stati Uniti e Unione Sovietica per la conquista dello spazio, la corsa agli armamenti nucleari delle due superpotenze, ma anche di paesi che si stanno affacciando ora alla ribalta internazionale. Poi la crisi economica causata dall’embargo messo in atto dai paesi arabi contro l’Occidente in occasione della guerra dello Yom Kippur contro Israele. Le tensioni in medio Oriente e il rischio sempre più concreto che, anche solo per errore, si possano distruggere interi paesi e dare inizio a una guerra totale, senza possibilità di salvezza, inducono le maggiori potenze mondiali a cercare la via della pace. Sarà un cammino lungo, costellato di difficoltà e di battute di arresto, ma che proprio negli anni ’70 comincerà a vedere i primi concreti successi.

Centro di Roma durante l'embargo petrolifero

 

Luci e ombre nel mondo

L’Italia è alle prese con il terrorismo, l’Irlanda con gli attentati dell’IRA (Irish Republican Army), la Grecia si trova in piena crisi istituzionale (1973) con la destituzione del re Costantino II decretata dalla giunta militare, in Cile si verifica il colpo di stato di Pinochet (1973) seguita dall’Argentina (1976), in Cambogia sale al potere Pol Pot (1976) il cui regime verrà ricordato come uno dei più sanguinari della storia, l’Afghanistan (1979) viene invaso dalle truppe sovietiche.

Non mancano però segnali di speranza: in Portogallo e in Spagna e poi in Grecia tra il 1974 ed il 1977 rinascono le democrazie, gli Stati Uniti pongono fine alla guerra in Vietnam, a Camp David si firmano gli accordi di pace fra Egitto e Israele, ma soprattutto mutano le relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

Gli accordi di pace di Camp David-1978

 

Ritiro dal Vietnam

Negli Stati Uniti si afferma sempre più l’esigenza di porre fine all’intervento militare in Vietnam, non solo perché i costi in termini economici e di vite umane sono diventati insostenibili, ma anche perché il conflitto compromette l’immagine degli USA nel mondo e il consenso politico interno. Tramontata la speranza di una vittoria militare, una resa onorevole sembra l’unica scelta possibile. Il ritiro però, si può realizzare solo mediante un accordo con le due potenze che sostengono Hanoi, la Repubblica Popolare Cinese e l’Unione Sovietica. Per questo, appena insediato, Richard Nixon, tramite l’abile diplomazia politica di Henry Kissinger, porta avanti una duplice azione diplomatica: distensione nei confronti dell’Urss e soprattutto avvicinamento alla Cina.

Attraverso numerosi trattati intesi a vincolare la potenza sovietica ed a stabilizzare il sistema internazionale, si pone come obiettivo a lungo termine quello di provocare un mutamento del sistema interno all’URSS.

Henry Kissinger

 

La crisi dei paesi comunisti

L’Unione Sovietica, dal canto suo, deve affrontare i primi segni di disgregamento nello schieramento socialista internazionale. L’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 ha provocato una grande crisi nei partiti comunisti occidentali e danneggiato notevolmente l’immagine di Mosca. Sarà Enrico Berlinguer a dare voce a questo disagio, quando, a Mosca, in occasione del 60° anniversario della Rivoluzione russa, nel 1977, affermerà che il PCI intende rispettare il pluralismo delle idee e l’esistenza di vari partiti. Il discorso viene aspramente criticato dalla leadership sovietica, ma dà l’avvio all’elaborazione di un’ipotesi politica che tiene conto delle realtà dei Paesi Occidentali e cancella il carattere rivoluzionario della teoria marxista.

Sul confine orientale sovietico si profila il pericolo cinese: dopo i sanguinosi scontri della primavera 1969 lungo il fiume Ussuri, comincia a delinearsi la possibilità che la Cina acquisisca una temibile capacità di risposta nucleare nei confronti dell’URSS che, inevitabilmente, è spinta a cercare un accordo con l’Occidente.

Enrico Berlinguer

 

L’Ostpolitik di Brandt

Un altro elemento si inserisce nel quadro dei rapporti fra Est e Ovest e contribuisce ad accrescere le possibilità di distensione: il mutato atteggiamento della Germania Ovest verso i regimi comunisti. Berlino si dimostra disponibile a normalizzare i rapporti con gli Stati dell’Europa orientale, in particolare con la Germania Est. Nel 1969, infatti, le elezioni politiche portano al governo una coalizione social-liberale guidata da Willi Brandt e Walter Scheel che introduce le linee-guida di una nuova politica estera: l’Ostpolitik, adeguando così la politica estera tedesca al contesto strategico globale. Quattro trattati, conclusi fra il 1970 ed il 1973, segnano l’avvio della Ostpolitik: quello concluso con l’Unione Sovietica, quello con la Polonia, quello con la Germania dell’Est e quello con la Cecoslovacchia, cui si aggiunge il trattato delle quattro potenze su Berlino Ovest.

 

I primi successi

In questo contesto, la politica della distensione ottiene, nel giro di pochi anni, una serie di importanti risultati: in primo luogo il dialogo tra le due superpotenze, Usa e URSS, si fa più stretto, trovando espressione nella dichiarazione di Mosca del 29 maggio 1972 sui rapporti fra i due paesi e nel trattato SALT 1 per la limitazione delle armi strategiche.

In Europa gli accordi bilaterali conducono ai negoziati di Helsinki per il miglioramento delle relazioni e della sicurezza tra i due blocchi nell’area europeo-asiatica, che sfoceranno nella firma dell’accordo con il quale tutti i paesi partecipanti si impegnano a rispettare l’inviolabilità delle frontiere, i diritti umani e a non interferire negli affari interni di altri paesi (1 agosto 1975).

Accordi SALT1 (Strategic Armaments Limitations Talks)

 

Il triangolo Cina-USA-URSS

L’apertura diplomatica degli Stati Uniti alla Cina è considerata strategica dal governo cinese per ridurre il rischio di un conflitto con l’Unione Sovietica e per ottenere aiuti economici e militari da parte dell’Occidente. Per la Cina questo costituisce un ambito traguardo sul piano internazionale: stringere rapporti con gli Stati Uniti significa, infatti, aprire la strada al riconoscimento di Pechino come legittima rappresentante della Cina in seno all’Onu.

Prima ancora di recarsi a Mosca nel maggio 1972, il presidente Nixon compie una visita ufficiale a Pechino, che entrambe le parti, con il comunicato di Shanghai, sfruttano per porre le basi per il loro ulteriore riavvicinamento. In questo modo avviene una normalizzazione nei rapporti fra i due paesi.

Alla vigilia della visita di Nixon, il governo cinese ha già ottenuto i primi risultati: numerosi governi asiatici e occidentali si sono affrettati a riprendere le relazioni diplomatiche con la Cina e a rompere con Taiwan; inoltre, nell’ottobre 1971, l’Assemblea generale dell’ONU ha approvato a grande maggioranza il riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese come rappresentante della Cina. Questo importante atto politico voluto dagli USA ha ripercussioni internazionali enormi: da questo momento la Cina di Mao diverrà un membro permanente al Consiglio di Sicurezza (con diritto di veto) mentre Taiwan, storico alleano USA, verrà esclusa dall’ONU.

Il promettente sviluppo delle relazioni con gli Stati Uniti, subisce una battuta d’arresto con lo scandalo Watergate, che scuote gli Stati Uniti e porta Nixon alle dimissioni, e con lotte interne per il potere scatenatesi in Cina dopo la morte di Mao Zedong (1976) e di Zhou Enlai.

I funerali di Mao Zedong

 

Una battuta d’arresto

Nella seconda metà degli anni settanta, tuttavia, la favorevole situazione internazionale, che sembrava dovesse accelerare la politica della distensione, sembra superata dai fatti: l’Urss, infatti, ha accresciuto i propri arsenali nucleari di missili a media gittata (SS20), acquisendo in tal modo un vantaggio strategico sul fronte europeo, e ha ampliato notevolmente la propria influenza del Terzo Mondo. Il colpo di grazia ai risultati raggiunti viene inferto dall’intervento delle forze sovietiche in Afghanistan, nel dicembre del 1979. Proprio l’invasione porterà al fallimento del secondo trattato Salt, firmato da Jimmi Carter e Leonid Breznev nel 1979 a Vienna che non troverà mai attuazione.

Anche i rapporti fra Mosca e Pechino subiscono un netto peggioramento, oltre che per l’intervento in Afghanistan, per la presenza di una potente flotta sovietica nel Pacifico e, soprattutto, per l’intesa tra Mosca e Hanoi, che viene ratificata in un trattato di amicizia nel 1978.

Dopo l’espulsione di centinaia di migliaia di cinesi dal Vietnam e l’invasione della Cambogia da parte dell’esercito vietnamita, la Cina vede sempre più messa in discussione la sua leadership nello scacchiere indocinese e, al tempo stesso, ritiene sempre più incombente il rischio di un accerchiamento sovietico.

Invasione dell'Afghanistan

 

Fronte unitario antisovietico

La contromossa di Pechino non si fa attendere, il 1 gennaio 1979 la Cina riprende gli accordi diplomatici con Washington e nel febbraio 1979 decide di invadere il Vietnam, dando vita ad una vera e propria campagna punitiva.

Si avviano così quei processi che, negli anni ottanta, porteranno alla crisi dei regimi comunisti in molti paesi dell’Europa dell’Est e in URSS. In Cina, la nuova classe dirigente si consolida e comincia un processo di liberalizzazione economica alla quale non fa riscontro un uguale processo di democratizzazione. Sono i primi segni di un mutamento che porterà, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio egli anni novanta a un assetto geopolitico mondiale completamente nuovo.

Guerra Sino-Vietnamita

 

La crisi del comunismo

In molti paesi dell’Europa orientale entra progressivamente in crisi il comunismo.

L’Unione sovietica, pur tra gravi problemi interni di natura sociale ed economica, riesce a rimanere importante sullo scenario internazionale, anche grazie alla nuova direzione imposta alla politica da Michail Gorbaciov.

A partire dalla metà degli anni ottanta, infatti, si verifica la svolta: nel 1985, dopo la morte di Breznev e la breve parentesi di Andropov e Cernenko, la segreteria del Pcus viene assunta da Michail Gorbaciov.

Più giovane e più dinamico dei suoi predecessori, rappresentante di una generazione che non era stata direttamente coinvolta nello stalinismo, Gorbaciov si mostra subito deciso a introdurre una serie di radicali novità in seno alla politica sovietica, sia sul piano dell’organizzazione interna che su quello dei rapporti internazionali, nel tentativo di rafforzare l’immagine dell’URSS molto indebolita.

In politica economica, il nuovo segretario lega il suo nome alla parola d’ordine “perestrojka”, ossia riforma, proponendo una serie di interventi nel segno della liberalizzazione, volti a introdurre nel sistema sovietico alcuni elementi di economia di mercato.

Sul terreno delle istituzioni, Gorbaciov si fa promotore, nel 1988, di una nuova costituzione che di fatto, senza intaccare il sistema del partito unico, lascia spazio a un limitato pluralismo, distinguendo più chiaramente le strutture dello Stato da quelle del partito. Ma ancora più importante delle riforme è tuttavia l’avvio di un programma di liberalizzazione interna condotto all’insegna della cosiddetta “glasnost”, un processo che consente lo svilupparsi di un dibattito politico-culturale impensabile fino a pochi anni prima. Una delle conseguenze delle aperture riformiste all’interno è l’attivo rilancio del dialogo con l’Occidente, rimasto pressoché congelato negli anni precedenti: la disponibilità di Gorbaciov al negoziato trova un interlocutore interessato nel presidente Ronald Reagan, desideroso di concludere brillantemente il suo secondo mandato presidenziale e di dimostrare al mondo la possibilità di gettare le basi per una nuova trattativa globale con l’Urss.

Tre ravvicinati incontri tra Reagan e Gorbaciov segnano la fine di una lunga stagione di incomunicabilità e inaugurano un clima più disteso nei rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica. La rinnovata collaborazione tra le due superpotenze fa nascere molte speranze sulle prospettive di un nuovo ordine internazionale, che vede un principio di attuazione nell’incontro a Parigi nel 1990, dove viene firmato un trattato di non aggressione e di riduzione degli armamenti strategici.

Regan e Gorbaciov durante il trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) - Washington 8 dicembre 1987

 

La fine del dominio sovietico sui Paesi dell’Europa dell’Est

Indipendentemente dai suoi effetti sull’evoluzione interna dell’URSS, la crisi del comunismo sovietico provoca un risultato di eccezionale e irreversibile portata storica: il crollo dei regimi comunisti imposti ai paesi dell’Europa dell’Est dopo il secondo conflitto mondiale. In Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia e in Germania dell’Est, il mutamento politico avviene in forme pacifiche e all’insegna della moderazione.

I governi comunisti scelgono di seguire l’esempio sovietico e di iniziare un processo di democratizzazione non troppo traumatico. In Germania, in particolare, i dirigenti, sotto l’autorevole avallo di Gorbaciov, decidono di liberalizzare la concessione dei visti d’uscita e dei permessi d’espatrio.

Il 9 novembre del 1989, i confini tra le due Germanie vengono aperti e il muro di Berlino abbattuto; i cittadini tedesco-orientali, in gran numero, si recano con curiosità in visita all’Ovest, in una atmosfera di festa e di riconciliazione che rilancia implicitamente il tema dell’unità tedesca.

Differenti, invece, le sorti di altre nazioni Est europee: in Romania, il mutamento di regime ha sviluppi drammatici per la sanguinosa repressione messa in atto da Nicolau Ceausescu, che tenta vanamente di opporsi al processo di democratizzazione ma la sua dittatura personale viene abbattuta nel 1989 con una rivolta popolare. Lo stesso accade poi in Bulgaria e, un anno più tardi, in Albania.

Processo a Ceausescu

 

La Cina sembra adeguarsi al modello consumistico occidentale.

La fine degli anni settanta ha visto compiersi anche in Cina un processo di radicale revisione interna, che ha come principale artefice Deng Xiaoping, anziano esponente del comunismo cinese.

Nel giro di pochi anni, Deng, capovolge la linea rigorosamente collettivista e egualitaria di Mao Tzedong e promuove una serie di profonde modifiche nella gestione dell’economia, che un po alla volta va nella direzione di quella di mercato. Questa trasformazione provoca notevoli mutamenti nella mentalità della gente e soprattutto dei giovani.

Proprio il contrasto tra una modernizzazione economica e il mantenimento dell’antica struttura burocratica e autoritaria del potere è all’origine, alla fine degli anni ottanta, di quel fenomeno di protesta che vede scendere in campo migliaia di studenti, tutti riuniti nell’immensa piazza di Tien-an-men, a Pechino. Il duro intervento dell’esercito pone fine alla protesta con un vero e proprio massacro, suscitando ovunque indignazione e sgomento per un evento che, alla soglia del nuovo millennio, evoca lo spettro di antiche oppressioni.

Massacro in piazza Tien-an-men 

 

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